mercoledì 15 ottobre 2008

morti.

nell'hotel dove vivevo entrava una luce strana.
l'insegna al neon che arrivava da fuori, della farmacia, illuminava di verde tutta la camera. la mia camera non era molto grande, era un unico locale che funzionava da camera da letto, cucina e bagno. molte persone sono state uccise in quella camera, il marrone della moquette, si è trovata parecchie volte a fare i conti con il rosso del sangue delle vittime e il verde della luce al neon.
il procedimento è semplice: passare la serata in un bar, cercando un'ottima compagnia, portarla a casa con il solito “beviamo qualcosa da me?”, entrare a casa, accomodarci sui divani. capitava in questi colloqui assurdi, di trovare delle ottime compagnie, senza però sentirti meno motivati allo scopo finale.
fuori dalla finestra, a pochi metri dalla farmacia c'era un semaforo. e una sera, mentre noi stavamo parlando seduti sul divano, uno schianto. c'era stato un incidente, anche abbastanza grave. nessuno di noi due si alllarmò più di tanto. pochi secondi e udimmo le sirene dei vigili del fuoco. fu allora che Matt pensò a qualcosa di grave, e si affacciò.
“cazzo dev'essere successo qualcosa di davvero pesante.”
feci giusto un cenno con la testa, che lui nemmeno vide. poi non riuscii a trattenermi. vederlo di spalle, così disponibile a farsi uccidere, mi invitò a balzare in piedi, prendere la statuetta che era vicino alla finestra e colpirlo. cadde al suolo con un rumore sordo, tipo “tonf”. cadde al suolo, dicevo, con un rivolo di sangue che usciva dalla testa rovinandomi la moquette. lo misi a sedere su una poltrona e cominciai a fotografarlo. aveva un espressione intelligente, come mai prima. Matt non ha mai brillato per essere un tipo sveglio.
intanto lo stereo passava i Morphine. e io fui felice di ciò. accesi una sigaretta e mi misi a fumarla affacciato alla finestra. c'era ancora il segno dei copertoni a terra, e la macchia di sangue. da quella capii che c'era stato un investimento. allora immaginai com'era andata, ma in realtà non mi interessava. per niente.
“vuoi fumare, Matt?”
Matt non rispose.
vabbè, finirò da solo di fumare. la scena dell'incidente comunque crea, fuori dalla finestra, una bella atmosfera. illuminata, sempre e comunque, da quella cara luce verde. presi posto sulla mia poltrona. versai del vino e ingoiai. scesi in strada e mi diressi verso il bar. trovai uno sgabello libero, e ordinai una birra.
“dov'è Matt?” - chiese l'uomo dietro il bancone.
boh, risposi senza parlare. con un lento movimento della testa. ma il barista dette l'impressione di aver capito perfettamente, cosa intendevo.
“sai che una volta io cantavo?” - continuò - “avevo un gruppo.. eravamo anche abbastanza conosciuti. poi però un giorno stavamo andando in tour, e il nostro camion sbandò. tutti morti, tutto bruciato, solo io vivo.”
“bello...” - risposi, senza staccare lo sguardo dalla bottiglia.
mi accesi una sigaretta, ma senza darmi nemmeno il tempo di fare due tiri, il barista mi disse che lì non si fumava, e mi strappò la sigaretta di bocca, spezzandola in due parti. non dissi nulla, non mi sembrava una cosa utile. mi alzai e mi diressi verso il bagno. era pulito dopotutto, ne ho visti di peggiori. ho pisciato e sono tornato al bancone.
“sai.. il tuo bagno è molto pulito.” - pronunciai verso il barista, accendendomi una sigaretta.
con un gesto naturale, senza arrabbiarsi, il barista spezzò anche questa.
“sta cominciando ad essere ripetitiva la cosa...” - dissi
lui mi degnò solo di un annoiato “mh”.
“fra poco chiudo, ti va un ultimo bicchierino?”
“certo...”
bevemmo l'ultimo bicchiere, sapendo che non sarebbe stato l'ultimo, prima della chiusura. iniziammo il ritorno verso casa. barcollavamo con una certa armonia che in un certo modo mi dava i nervi. decidemmo di comune accordo, di bere ancora un altro pò, da me. salimmo in camera, e la luce verde era sempre lì. porta aperta, e successivamente chiusa. entrando sbattéi la caviglia vicino ad un tavolino che avevo lì da anni, inutilizzato. “cazzo, dovrò spostarlo…”
allo stereo c’erano i Rolling Stones, paint it black. prendemmo posto sulle solite poltrone, e cominciammo a bere e parlare di cose più o meno comprensibili. Il barista accese una sigaretta, e automaticamente mi alzai e andai a spezzarla.
“giusto, fai tu le regole qui.” disse, bevendo. cosa permessa.
accesi una sigaretta, bevendo di tanto in tanto dalla bottiglia, imitando il mio compagno.
“posso usare il bagno?” chiese il barista.
feci cenno di si, forse per riconoscenza. lui nel bar mi aveva concesso il permesso di sporcare il suo. sentivo che il momento era arrivato, mi alzai e andai alla finestra fumando mentre guardavo fuori.
“ehi, peccato che non si possa dire lo stesso del tuo bagno... è uno schifo!” sottolineò, uscendo dal bagno e riallacciandosi i pantaloni. “ma d’altra parte… non sembri uno che bada tanto alla pulizia.”
“mh.”
“non dovresti essere così distaccato. in fondo non sei male come compagnia.” evidentemente, non sapeva cosa aveva previsto il futuro per lui. nascondevo la statuetta sotto la giacca. senza girarmi capii che mi era a fianco, ero sempre stato bravo a sentire gli spostamenti d’aria.
era il momento, eravamo spalla e spalla. fui veloce a girarmi verso di lui con la statuetta alzata sopra la sua testa. lui – però - fu più rapido di me, mise una mano sul mio polso e bloccò la statuetta. l’altra mano invece me la mise alla gola, togliendomi il respiro. non era certo la prima volta che mi si presentava una complicazione, ma le altre volte non hanno rubato all’azione più di trenta secondi. in questo caso invece, ci fu la lotta. e lui ebbe la meglio. riuscì a sbattermi a terra, e la mia nuca decise proprio in quell’istante di incontrare lo spigolo del tavolino che – diavolo – dovrò spostare.
il sangue iniziava ad offuscare la mia vista, vedevo l’ambiente, per metà, in tonalità di rosso.
“bastardo, non sono mica uno di quei coglioni che ti porti a casa.” disse, estraendo la pistola e esplodendo tre colpi. uno alla gamba e due al torace.
sentii il ferro delle pallottole scorrermi nelle vene. in pochi minuti fui un cadavere.

due settimane dopo ero ancora vivo, nella mia camera. certo, non c’era il mio corpo. ma io ero riuscito a scappare dal corpo, e sottoforma di rivolo di sangue mi ero posizionato sotto il tavolino, sperando che qualcuno non lo togliesse di lì. la stanza ovviamente fu riaffittata, ad una ragazza colombiana che faceva la cameriera. Marisol mi pare si chiamasse, non ho avuto possibilità di approfondire. sapete com’è, nella mia condizione. anche se, ero proprio messo bene quando il verde dell’insegna m’illuminava. Marisol era la tipica sudamericana, anche se non riuscivo ad inquadrare bene la sua origine. aveva la pelle caffè-latte, i capelli lisci che le accarezzavano la schiena, e parlava in stile Speedy Gonzales. dimostrava meno di trent’anni ed almeno un matrimonio andato male nella vita. si concedeva una confezione da sei di birre al giorno e questa fù una specie di eredità, per me. questo e la musica. la mia amica colombiana non cambiò la stazione radio che ascoltavo io, una radio che trasmetteva musica rock anni sessanta e settanta, alternandola a brani moderni dalle stesse influenze. e così, le mie giornate, nascosto sotto il tavolino, passavano spiando Marisol e ascoltando dai Beatles ai Beach Boys, dai Led Zeppelin ai 13th Floor Elevators.
quasi un mese dopo il trasloco della nuova occupante della casa, lei non andò a lavorare. rimase in casa a bere, fumare ed ascoltare musica. tutto quel non uscire, non fumare, non bere, non uccidere mi provocò un maledetto mal di testa, e mi ritrovai a ringraziare di non averla più, la testa. la giornata fuori dalla finestra era piovosa, dannatamente piovosa, senza togliere alla strada quel ritmo caotico che odiavo, e per lo stesso motivo mi aveva convinto a prendere la stanza in quel preciso punto dell’incrocio.
l’animo da cameriera di Marisol, però, si fece sentire e vedere anche nella giornata di ferie. decise di spostare un po’ la disposizione dei mobili. per esempio, la posizione del tavolino. ero in una posizione difficile, facilmente individuabile.
per fortuna non andò in questo modo, Marisol non mi vide, e uscì a bere. tornò a casa verso le tre, cantando e ballando da sola. aveva coraggio, considerando che dopo tre ore sarebbe dovuta andare a lavoro. alle sei, infatti, era già fuori casa. con la casa vuota il tempo sembrava destinato a non passare, e invece arrivò subito la sera. con la mia coinquilina incazzata, e piena di lamentele.
“cazzo non è giusto.. io non sono una macchina” – sbraitava tra sé e sé.
scoprii dopo qualche oretta che le avevano riservato anche il turno di notte, minacciandola di farle perdere il posto se avesse rifiutato. non è giusto, pensai anch’io, sentendomi al centro della stanza. così ebbe solo il tempo di farsi una doccia, dormire un paio d’ore e tornare a lavoro, alle dieci di sera. beh, potevo dormire un po’, anche se mi era un po’ difficile chiudere gli occhi.
verso le due si sentirono due voci sussurrare davanti alla porta:
“muoviti… quanto cazzo ti ci vuole ad aprire una porta del genere?” - disse la prima voce.
“stai zitto, altrimenti mi ci vuole ancora di più.” - rispose la seconda
in pochi minuti furono dentro, senza fare il minimo rumore. erano due, alti, grassi, ben piazzati. due fisici tipici delle nostre zone. si scambiavano frasi, da cui uscivano solo poche parole comprensibili. parlavano di qualcosa da prendere, e da rivendere. ladri, sicuramente e nemmeno tanto agili. cominciarono a spazzare tutto, molto meglio di tante cameriere messe insieme.
“muoviti, è quasi ora di andare via.” – rimproverò la prima voce.
si recarono entrambi verso la porta, correndo. la seconda voce davanti, aprì la porta e uscì. la seconda, finì di caricare il suo sacco ed arrivò alla porta.
avevo una brutta impressione, e continuavo ad averla. ripetutamente. fui calpestato da una scarpa, era la prima voce. che su di me scivolò e cadde. la stessa mia morte. la nuca della prima voce fu felice di conoscere lo spigolo del mobiletto appoggiato al muro. ero vivo da morto, e continuavo ad uccidere. solo quando quel corpo fu allo stesso livello mio, ebbi la lucidità di riconoscerlo. era il mio assassino, il barista e il miglior compagno che abbia mai trovato in un bar.
al suo rientro Marisol chiamò la polizia, denunciando il furto. il corpo fu portato via da un’ambulanza e la ragazza, che accese lo stereo come seconda mossa, aprì la finestra e – sbaglierò – mi fece l’occhiolino.

0 persone che parlano di questo. :