domenica 2 novembre 2008

bukowski #3: dolore di scarto.

Il poeta Victor Valoff non era un grande poeta. Aveva una fama ristretta, era apprezzato dalle donne e mantenuto da sua moglie. Leggeva di continuo le sue poesie nelle librerie del circondario e spesso lo si sentiva alla radio locale. Declamava con voce alta e drammatica, ma l’intonazione non cambiava mai. Victor era perennemente enfatico. Forse per questo affascinava le donne. Alcuni dei suoi versi, presi separatamente, erano dotati di una certa forza, ma quando si esaminava il contesto globale di una poesia, si capiva che Victor non diceva niente, anche se lo diceva ad alta voce.
Ma Vicki, che come molte donne si faceva incantare dagli sciocchi, continuava ad andare a sentirlo leggere. Era una serata calda, un venerdì, in quella libreria femminista-lesbico-rivoluzionaria. L’ingresso era gratuito. Valoff leggeva gratis. E, in concomitanza con la lettura, era stata organizzata una mostra dei suoi quadri. I suoi quadri erano molto moderni. Una pennellata o due, abitualmente rosse, e un epigramma in colore contrastante. Le massime che vi si leggevano erano del tipo seguent
e


Cieli verdi tornate da me,
Piango lacrime bianche, nere, grigie…


Valoff era un uomo intelligente. Aveva il senso delle sfumature.
Foto di Tim Leary erano appese un po’ ovunque. Cartelli con BASTA REAGAN. Non mi dispiacevano i cartelli con BASTA REAGAN. Valoff si alzò e si diresse verso il palco con una mezza bottiglia di birra in mano.

“Guarda,” disse Vicky. “Guarda che faccia! Quanto deve aver sofferto!”
“Già,” ribattei. “E adesso soffro io.”

In effetti Valoff aveva un viso piuttosto interessante a paragone di quello degli altri poeti. Ma a paragone di quello degli altri poeti, quasi tutti hanno un viso interessante.

Victor Valoff iniziò.


“A oriente dello stretto del mio cuore

si sente un ronzio ronzio ronzio

in sordina, ancora in sordina

e all’improvviso l’Estate ritorna

dritta sparata come un

atleta che corre i cento metri

del mio cuore!”


Victor declamò l’ultimo verso urlando e in quel mentre qualcuno vicino a me esclamò: “Splendido!” Era una poetessa locale, una femminista che si era stancata dei neri, e adesso si portava a letto un dobermann. Aveva una treccia di capelli rossi, gli occhi spenti, e declamava le sue poesie accompagnandosi con un mandolino. Gran parte delle sue opere aveva per tema l’impronta di un bambino morto sulla sabbia. Era sposata con un medico che non compariva mai (o almeno aveva il buonsenso di non frequentare le letture di poesia), ma le passava un lauto assegno per continuare a scrivere e per nutrire il dobermann.
Valoff continuò:


“Cantieri anitre e giornate scipite
Ribollono dietro la mia fronte

in un modo che è indimenticabile

o, in un modo che è indimenticabile.

Oscillo tra luce e oscurità…”


“Su questo sono d’accordo,” dissi a Vicky.
“Per favore, taci,” rispose.


“Con mille pistole e mille
speranze

Esco sul portico della mia mente

per uccidere mille papi!”


Mi pescai in tasca la mia mezza pinta, svitai il tappo e ne trangugiai una bella sorsata.
“Ti sbronzi sempre a queste letture,” disse Vicky. “Non puoi controllarti?”

“Mi sbronzo anche alle mie,” risposi. “Non tollero nemmeno quello che scrivo io.”

Pietà gommata,” continuò Valoff. “E’ questo che siamo, pietà gommata, gommata gommata gommata pietà…

“Adesso vedrai che tira fuori il corvo,” dissi.

Pietà gommata,” prosegue Valoff, “e in eterno il corvo…

Scoppiai a ridere. Valoff riconobbe la risata. Abbassò gli occhi su di me. “Signore e signori,” disse. “Stasera abbiamo tra noi il poeta Henry Chinaski.”

Qualcuno tra il pubblico fischiò. Mi conoscevano. “Sporco maschilista!” “Ubriacone!” “Ciucciacazzi!” Buttai giù un altro sorso. “Continua pure, Victor,” gli dissi. Continuò.


“… condizionato dal peso del coraggio
il sostituto rettangolo dall’imminente gocciolio non

è altro che un gene a Genova

un Quetzalcoatl con tre gemelli

e il Cinese lancia grida agrodolci e barbariche

dentro il suo ciuffo!”


“E’ bella,” disse Vicky. “Ma di cosa sta parlando?”
“Sta parlando di leccare la passerina.”
“Lo pensavo. E’ un uomo straordinario.”
“Spero che la lecchi meglio di come scrive.”

“dolore, cristo, il mio dolore,
dolore di scarto,

stelle e strisce di dolore,

cascate di dolore,

ondate di dolore,

dolore in offerta speciale

ovunque…”


“Dolore di scarto,” dissi. “Mi piace.”
“Non parla più di leccare la passserina?”

“No, ora dice che non è contento.”


“una dozzina di Baker, un cugino del cugino,
fate entrare la streptomicina

e gonfiate, propizi, il mio

gonfalone.

Sogno il plasma del carnevale

attraverso cuoio frenetico…”


“E adesso costa sta dicendo?” domandò Vicky.
“Sta dicendo che si sta preparando a leccare di nuovo la passerina.”
“Ancora?”

Victor declamò un altro po’ e io bevvi un altro po’. poi ci fu un intervallo di dieci minuti e il pubblico si alzò e si raccolse attorno al palco. Anche Vicky ci andò. Faceva caldo lì dentro e io uscii in strada per rinfrescarmi. A mezzo isolato di distanza c’era un bar. Ordinai una birra. Non era troppo affollato. Alla TV davano una partita di basket. Rimasi a guardarla. Naturalmente non me ne fregava niente di chi avrebbe vinto. L’unico mio pensiero era, mio dio, guardali come corrono, avanti e indietro, avanti e indietro. Scommetto che hanno il sospensorio fradicio, scommetto che dal culo gli esce una puzza tremenda. Mi scolai un’altra birra e poi tornai all’antro della poesia. Valoff aveva già ripreso. Lo si sentiva a un isolato di distanza:


“Strozzati, Columbia, e i cavalli morti della
mia anima

mi accolgano ai cancelli

mi accolgano mentre dormo, Storici

lo vedete questo tenerissimo Passato,

sopraffatto da sogni di geishe, perforato a morte

dagli importuni!”

Tornai al mio posto accanto a Vicky. “Cosa sta dicendo ora?” mi domandò.
“Non sta dicendo niente di speciale. Fondamentalmente sta dicendo che non riesce a dormire la notte. Dovrebbe trovarsi un lavoro.”

“Dice che dovrebbe trovarsi un lavoro?”

“No, sono io che lo dico.”


“… il lemming e la stella cadente sono
fratelli, l’ambiente del lago

è l’Eldorado del mio

cuore. Venite a prendere la mia testa,

venite a prendere i miei

occhi, frustatemi con steli di delfinio…”


“E ora cosa sta dicendo?”
“Dice che ha bisogno di un donnone grasso che lo strapazzi come si deve.”
“Non fare lo spiritoso. L’ha detto sul serio?”
“Lo diciamo entrambi.”


“… potrei mangiare il vuoto,
potrei sparare cartucce d’amore nel buio

potrei chiedere in India il tuo pacciame

recessivo…”


E così via, senza smettere. Un’unica persona con il cervello a posto si alzò e se ne andò. Tutti gli altri rimasero.

“… Io dico, trascinate gli dei morti nella
sanguinella!

Io dico che la palma è redditizia

Io dico, guardiamo, guardiamo, guardiamoci

attorno:
Tutto l’amore è nostro

tutta la vita è nostra

il sole è il nostro cane che portiamo al guinzaglio

non c’è niente che ci può sconfiggere!

Io dico, vaffanculo!

basta tendere la mano,

basta trascinarci fuori delle nostre

tombe di ovvietà,

la terra, la polvere,

la speranza intessuta del miraggio si innesta sui nostri stessi

sensi. Non abbiamo niente da prendere e niente da

dare, abbiamo solo bisogno di

cominciare, cominciare, cominciare…!”


“Grazie infinite di essere venuti,” disse Victor Valoff.
Gli applausi furono entusiastici. Applaudivano sempre. Victor risplendeva in tutta la sua gloria. Levò in alto la bottiglia di birra. Riuscì persino ad arrossire. Poi sorrise, un sorriso molto umano. Le signore impazzirono. Buttai giù un ultimo sorso di whiskey.

Tutti si erano avvicinati a Victor. Era molto impegnato a rilasciare autografi e a rispondere alle domande. Dopodiché sarebbe passato a illustrare i suoi quadri. Riuscii a portar fuori Vicky e ci incamminammo verso la macchina.

“E’ un lettore straordinario,” disse lei.

“Si, ha una voce adatta.”
“Cosa ne pensi della sua poesia?”
“Penso che sia pura.”
“Io penso che tua sia geloso.”

“Fermiamoci qui a bere qualcosa,” le dissi. “Alla Tv c’è una partita di basket”

“D’accordo,” disse.

La partita non era ancora finita, per fortuna. Ci sedemmo.

“Cavolo,” disse Vicky. “Guarda che gambe lunghe hanno quei tipi!”
“Adesso si che ragioni,” le dissi. “Cosa prendi?”

“Scotch e soda.”
Ordinai due scotch e soda e ci mettemmo a guardare la partita. I ragazzi continuavano a correre, avanti e indietro, avanti e indietro. Era una meraviglia. doveva essere successo qualcosa perché si agitavano come matti. Nel locale non c’era quasi nessuno. Decisamente, quella era la parte migliore della serata.



Charles Bukowski.
racconto inserito nel libro musica per organi caldi (hot water music, 1983).

1 persone che parlano di questo. :

  1. Anonimo ha detto...

    Bukowsky, un adorabile mascalzone.